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L'ARTE DEL NON FINIRE – Perché i progetti incompiuti potrebbero essere la tua eredità più preziosa

  • Immagine del redattore: Maria Elena Basso
    Maria Elena Basso
  • 18 ore fa
  • Tempo di lettura: 5 min


Esistono conversazioni che cambiano il modo in cui guardi alla tua vita. Quella con Laura è una di queste, anche se inizia nel modo più semplice possibile: con una confessione.


"C'è un cassetto nella mia scrivania che non apro mai", mi dice a metà della sessione. Siamo collegati via Zoom, lei dal suo studio, io dal mio. Ma il suo tono è quello di chi sta per mostrare qualcosa di molto personale.


"Cosa contiene?" le chiedo.


"Il museo dei miei fallimenti."


Mi descrive il contenuto con una precisione che tradisce quanto spesso ci abbia pensato: un quaderno con tre pagine scritte di un podcast mai registrato, lo screenshot di un sito web che non ha mai visto la luce, l'intestazione di una newsletter ferma al numero zero, le bozze di un corso che non è mai partito.


"Sono tutti progetti che ho iniziato e mai finito", spiega. "La prova che non sono capace di portare a termine niente di quello che comincio."


In quel momento potrei fare mille cose. Potrei rassicurarla dicendo che succede a tutti. Potrei suggerirle strategie per migliorare la sua costanza. Potrei esplorare le sue resistenze psicologiche al completamento.


Invece le chiedo semplicemente di immaginare di guardare di nuovo in quel cassetto. Non i progetti. Lei.


La domanda che cambia tutto


"Quando hai iniziato il podcast", le chiedo, "cosa stavi cercando in quel momento della tua vita?"


Il silenzio che segue dura probabilmente meno di trenta secondi, ma è uno di quei silenzi densi in cui puoi sentire qualcuno che si riposiziona rispetto alla propria storia.


"Cercavo la mia voce", dice infine. "Letteralmente. Avevo passato vent'anni a ripetere procedure, protocolli, parole di altri. Volevo sentire come suonava la mia voce quando diceva cose che venivano da me."


"E la newsletter?"


"Quella è arrivata dopo, quando ho lasciato il lavoro fisso e tutto era caos. Pensavo che scrivere con regolarità mi avrebbe dato un senso di ordine, di controllo."


"E il corso?"


Laura sorride per la prima volta. "Il corso l'ho immaginato quando ancora non sapevo davvero cosa avessi da insegnare. Era più un modo per sentirmi legittimata come professionista."


"Hai finito il podcast?" le chiedo.


"No."


"Hai trovato la tua voce?"


Altra pausa. Più breve, questa volta. "Sì. Ma non registrando episodi. L'ho trovata parlando con i clienti, scrivendo proposte commerciali che finalmente suonano come me, dicendo no quando prima avrei detto sì."


L'ossessione del finito


Viviamo in un'epoca ossessionata dal completamento. Ogni progetto deve trasformarsi in un prodotto. Ogni idea deve generare un risultato misurabile. Ogni inizio presuppone un finale definito, preferibilmente con un lancio, una cerimonia, un post su LinkedIn che celebra il traguardo raggiunto.


È come se la nostra legittimità personale e professionale si misurasse esclusivamente nel catalogo delle cose finite, come se fossimo obbligati a consegnare sempre una versione 1.0 al mercato della nostra vita.


Ma le persone non sono prodotti software. Non funzionano per release successive con obiettivi chiari e milestone predefinite. Crescono per approssimazioni, intuizioni abbandonate a metà, direzioni esplorate e poi lasciate quando non servono più.


A volte iniziamo qualcosa non perché dobbiamo finirlo, ma perché abbiamo bisogno di attraversarlo.


I progetti come ponti


Quello che Laura chiama "museo dei fallimenti" è in realtà qualcosa di completamente diverso: un archivio di trasformazioni.


Il podcast non registrato l'ha comunque portata a interrogarsi su cosa avesse da dire, a chi volesse dirlo, con quale voce. La newsletter mai pubblicata l'ha costretta a creare ordine nei suoi pensieri in un momento in cui tutto nella sua vita era transizione. Il corso non strutturato è diventato molto più di un corso: è diventato una pratica di ascolto profondo dei suoi clienti che ha trasformato il suo modo di lavorare.


Nessuno di questi progetti è stato "finito" nel senso convenzionale. Ma tutti l'hanno attraversata e trasformata. Sono stati ponti, non destinazioni.


"Non li ho finiti", dice Laura alla fine della sessione, immaginando di guardare di nuovo il contenuto del cassetto con occhi diversi, "ma mi hanno attraversata. E forse era esattamente quello di cui avevo bisogno."


La bellezza dell'incompiuto


C'è una bellezza particolare nei progetti incompiuti, se accettiamo di guardarli non come fallimenti ma come ricerche.


Sono la prova che siamo stati disposti a esplorare senza la garanzia dell'arrivo. Che abbiamo avuto il coraggio di iniziare qualcosa anche quando non sapevamo dove ci avrebbe portati. Che abbiamo avuto la saggezza di fermarci quando abbiamo capito che quella strada non era più la nostra.


I progetti incompiuti sono il diario di bordo di chi non ha paura di cambiare direzione quando trova una via più vera. Sono l'opposto del cinismo, che non inizia mai niente per paura di non finire.


Nel mio lavoro di coach incontro continuamente persone che portano il peso dei loro progetti non completati come se fossero peccati da espiare. Freelance che si sentono in colpa per ogni idea non concretizzata. Professionisti che interpretano ogni cambiamento di direzione come prova della loro inaffidabilità. Persone che hanno smesso di iniziare cose nuove perché "tanto poi non le finisco mai".


Ma forse la vera domanda non è "perché non finisco mai niente?", ma "cosa sto cercando quando inizio? E cosa ho trovato lungo la strada, anche se non era la meta che mi ero immaginata?"


Il permesso di cercare


Uno dei doni più preziosi che possiamo farci è il permesso di usare i progetti come strumenti di esplorazione piuttosto che come contratti vincolanti con noi stessi.


Il permesso di iniziare un podcast per scoprire la nostra voce, anche se poi non registreremo mai un episodio. Il permesso di abbozzare un libro per capire cosa pensiamo davvero, anche se non vedrà mai una casa editrice. Il permesso di progettare un corso per strutturare le nostre conoscenze, anche se poi scopriremo che preferiamo lavorare in modi più fluidi e personalizzati.


Questo non significa essere superficiali o incostanti. Significa essere onesti sul fatto che a volte abbiamo bisogno di iniziare qualcosa per capire dove vogliamo davvero andare. Che il processo conta quanto, e a volte più, del risultato. Che siamo organismi viventi che crescono e cambiano, non macchine da produzione con obiettivi fissi.


Laura oggi non ha un podcast. Non ha una newsletter. Non ha strutturato quel corso. Ha qualcosa di più importante: ha imparato a riconoscere quando un progetto le ha dato ciò che doveva darle, anche se non ha prodotto il risultato che immaginava. Ha imparato a distinguere tra l'abbandono che nasce dalla paura e quello che nasce dalla saggezza.


E il suo cassetto? Lo ha tenuto, ma ha cambiato nome. Non più "museo dei fallimenti". Adesso lo chiama "archivio delle ricerche".


Forse è questo, alla fine, l'arte del non finire: riconoscere che alcune cose non sono fatte per essere completate, ma per essere attraversate. E che la bellezza non sta nel catalogo dei risultati raggiunti, ma nel coraggio di continuare a cercare.


Maria Elena Basso - Coach PCCBe Yourself Coaching


 
 
 

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